La salute delle piante nell’intervista a Matteo Garbelotto

Il 12 maggio è la Giornata internazionale della Salute delle Piante, una ricorrenza istituita dalla FAO – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. L’iniziativa nasce per sensibilizzare sull’importanza di preservare la salute delle piante e il suo ruolo nel proteggere la biodiversità e l’ambiente. Per approfondire l’argomento, di seguito l’intervista a Matteo Garbelotto, specialista in Patologia Forestale, realizzata in esclusiva per il sito di Coltivato dal giornalista Luca Fiocchetti.

La globalizzazione fa correre veloci i patogeni: fermare l’importazione di piante esotiche non necessarie, come lei invoca da tempo, o sottoporle a tampone, come ha fatto in California, basta per contenere il dilagare di queste nuove malattie?

Innanzitutto dovremmo chiederci se sia veramente necessario importare tutte queste piante esotiche. In tutte le regioni del mondo si producono bellissime specie ornamentali, quindi perché non utilizzare piante autoctone? Ci sono numerosi studi scientifici che dimostrano la diretta correlazione tra volume di piante nell’import/export e il numero di organismi alieni introdotti. Se riuscissimo a ridurre la quantità di piante importate, ecco che i nuovi test diagnostici potrebbero fare la differenza. Nel mio laboratorio di Berkeley è stato sviluppato il primo tampone molecolare mai usato ufficialmente da una nazione per  diagnosticare una malattia vegetale. Piante ornamentali importate infette con la Sudden Oak Death hanno causato in California la tragedia ambientale più grande del ventunesimo secolo, decimando centinaia di milioni di querce. Grazie al tampone e alla restrizione delle vendite di piante portatrici della Sudden Oak Death ora la malattia è decisamente sotto controllo. Ritengo comunque che i governi dovrebbero aumentare la pressione su chi le piante le produce, le vende e le trasporta a lunga distanza perché vengano addebitati a tali industrie sia i costi del monitoraggio, sia i costi ambientali. Il costo di riparare e restaurare l’ambiente dovrebbe ricadere sui colpevoli e non solo sulla società e sulle comunità più colpite da questi cataclismi biologici.  

E il cambiamento climatico come influisce sullo stato di salute delle piante?

È la ciliegina sulla torta, diciamo così, perché il clima sta avendo due effetti principali sul mondo vegetale. Il primo, che però a mio avviso è meno importante, è direttamente sui microbi patogeni: aumentano le malattie di origine tropicale e subtropicale proprio perché l’Italia si sta tropicalizzando (la Xylella ne è un esempio), mentre diminuiscono i patogeni psicrofili, cioè quelli che amano  i climi freddi. Il secondo effetto, a mio avviso assai più dannoso, è invece sulla pianta. Le piante, gli alberi in particolare, hanno cicli di vita lunghissimi e, non potendo spostarsi per inseguire climi più freschi ad altezze più elevate, finiscono per vivere in aree che non sono più adatte a loro. In casi estremi, le piante  si indeboliscono e vengono attaccate anche da patogeni considerati non particolarmente virulenti.

Quali sono gli altri rischi?

C’è un’insidia ben più grande, che sto studiando da circa un decennio, ed è rappresentata da quei microbi benefici che, in una pianta con una fisiologia alterata dal cambiamento climatico, si trasformano in patogeni. Io li chiamo Dr.Jekyll e Mr. Hyde. Il problema è che questi organismi sono già presenti nelle piante perché fanno parte del loro microbioma. Negli ultimi 6 anni ho studiato una dozzina di morie su grande scala di alberi  forestali e arbusti che stanno avvenendo in California. Ognuno di queste nuove grandi morie è causata da organismi che hanno una virulenza maggiorata dallo stress fisiologico delle piante. Siamo riusciti a provare questa ipotesi in laboratorio confrontando la severità dei sintomi in piante stressate dalla siccità (creata artificialmente in ambienti controllati) con quelli di piante a cui veniva data abbondante acqua. Le piante esposte a siccità dimostravano sintomi più acuti e morivano più spesso, ma solo se la siccità era accoppiata a uno di questi microbi “Dr. Jekyll e Mr Hyde” che cambiano biologia. 

Insomma, molte piante si trovano in condizioni climatiche ormai sfavorevoli e non potendo spostarsi sono più soggette a patologie. Allora non c’è soluzione e le epidemie sui vegetali saranno sempre più frequenti…

La soluzione c’è, è concettualmente facile, ma difficile da eseguire. Bisogna accettare che le piante in permanente, o quasi, stato di stress non possono  sopravvivere, quindi i nostri boschi e i nostri parchi devono mutare. Molte specie a noi care devono essere sostituite da piante abituate a climi più caldi, che non saranno soggette a malattie legate allo stress fisiologico causato dalle temperature in aumento. Questo cambiamento avverrà naturalmente, ma in un tempo molto lungo, e se noi riuscissimo ad accelerarlo, eviteremmo alle prossime generazioni di vivere in un mondo naturale caratterizzato da epidemie infettive e, quindi, degradato e incapace di fornire quei servizi ambientali essenziali che gli alberi e le piante in generale offrono. Degrado significa temperature ancora più alte, erosione geologica, acqua contaminata, mancanza di aria pura.

Qual è il ruolo della ricerca nel prevenire questi rischi?

Penso che il ruolo responsabile di noi ricercatori sia proprio quello di educare la società e di facilitare il processo di cambiamento usando l’evidenza scientifica, senza dimenticarci però di fare tutto il possibile per salvare quello che si può salvare. Questa integrità etica deve spingerci a preservare quello che ancora può vegetare bene e a suggerire delle nuove alternative laddove le specie di piante tradizionali inizino a soffrire e a deperire. Quindi attenzione a non promuovere la mentalità della tabula rasa. Il nostro compito deve essere fatto con finezza culturale, sociale e scientifica per creare progressivamente un nuovo ambiente naturale che, pur differente da quello attuale, sia egualmente biodiverso, funzionale e, perché no, altrettanto bello.

La seconda edizione di Coltivato si avvicina, qual è il contributo che questo Festival può dare al complesso sistema agricolo e quindi alla nostra alimentazione?

La salute dei sistemi naturali e agroalimentari è veramente un problema su scala globale. I problemi del commercio inutile o del commercio “sporco”, cioè di piante infette, la necessità di cambiare le specie di piante che coltiviamo, ma anche quelle in natura, per creare ecosistemi più stabili alle nuove condizioni climatiche, sono problematiche che necessitano  della partecipazione di molteplici attori. I politici, gli scienziati, l’industria, le comunità locali (anche indigene) e il pubblico in generale che deve comunque  accettare e forse scegliere tra le diverse opzioni per il futuro. Nessuno di questi attori può agire individualmente e l’interconnessione tra le parti è, secondo me, la sfida più grande del nostro tempo. Abbiamo il “know how” e i mezzi per affrontare le crisi attuali, ma il successo può essere ottenuto solo se le parti agiscono in concerto e confrontandosi tra loro. Il primo passo per stabilire queste collaborazioni sta nell’aumentare la consapevolezza delle problematiche, farle comprendere in fondo. Il secondo passo sta nel creare un forum di confronto tra tutti gli attori. Ecco che un Festival come Coltivato ha la potenzialità di farci compiere questi due passi, importantissimi proprio perché le diverse parti in questione sono presenti  e hanno una voce loro. Sono solo due passi ma, come sappiamo tutti, si arriva alla meta un passo alla volta.