Zitti tutti, parla il Grano e racconta la sua storia…

Se fossi il grano come ti descriveresti? Da dove vieni?

C’era una volta la mezzaluna fertile: adesso non c’è più. Ecco io vengo la lì. Vengo da quella lingua di terra, un tempo fertile e ricca di acqua, che dall’Egitto arriva alle fenicie Tiro e Sidone per poi rivolgersi a Est verso il Tigri e l’Eufrate, tra i cui corsi d’acqua sorse il primo impero umano, quello mesopotamico. In quella terra sono cresciuto libero e spontaneo, senza cure, primitivo e rozzo, mai da solo ma sempre in compagnia di tante altre specie di piante selvatiche e dei miei genitori (Triticum spp. ed Aegilops spp.). 

Poi?

Poi ho frequentato la scuola nel sud-est della Turchia durante il Neolitico, dove sono stato “addomesticato” circa 12.000 anni fa, e quando sono diventato più grande, un poco come fanno i giovani di oggi, ho girato il mondo dal Medio Oriente, mi sono spostato nei Balcani e nel Caucaso, nel Turkmenistan, nell’Europa centrale e mediterranea, nel Nord Africa e infine nell’Europa occidentale e settentrionale. In tutte queste regioni ho svolto un ruolo importante nello sviluppo dell’agricoltura e nell’insediamento delle comunità agricole che oggi godono di prosperità e benessere. Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare il grembo materno, il luogo in cui sono stato generato, un tempo prosperoso e fertile, oggi completamente schiacciato dalla morsa degli interessi politici ed economici legati alla gestione delle acque dei grandi fiumi, che lo hanno reso povero, arido e sterile.

Ci torniamo su questa questione, ma prima ti volevo chiedere, che incroci hai avuto, insomma, qual è la tua storia genetica? Chi sono i tuoi genitori?

Faccio parte di una grande famiglia (Poacee, comunemente conosciute come Graminacee) ed appartengo al genere Triticum che comprende diverse specie con vari livelli di ploidia e numero di cromosomi: diploidi (2n=2x=14 cromosomi, AA), tetraploidi (2n=4x=28 cromosomi, AABB) ed esaploidi (2n=6x=42 cromosomi, AABBDD). L’aumento del numero di cromosomi rispetto al normale assetto diploide (=poliploidizzazione) è stato il principale fattore evolutivo nella storia della nostra famiglia ed in particolare di quella di mio fratello maggiore (grano tenero).

Spiega il tuo albero genealogico, allora.

Mio padre Triticum monococcum (diploide, 2n=14), volgarmente chiamato “farro piccolo”, è stato il primo cereale domesticato dall’uomo. La sua forma selvatica (Triticum boeticum) conteneva un gene che lo rendeva capace di diffondere ampiamente i propri semi, in pratica la spiga era fragile e a maturazione si rompeva (=disarticolava). Disseminando i semi nello spazio circostante si assicurava la vita negli anni a venire. PiĂą tardi, un’unione spontanea e molto rara ha determinato il primo importante sviluppo genetico nella nostra famiglia, dal momento che l’intero genoma di mio padre (2n=14, AA), si è “fuso”, sarebbe piĂą corretto dire incrociato, spontaneamente con quello di mia madre, un’altra forma selvatica (i.e., Aegilops sezione sitopsis (2n=14, BB), generando una specie tetraploide, il Triticum dicoccoides o farro selvatico. Questa nuova specie selvatica conteneva i geni di entrambi i miei genitori e il doppio dei loro cromosomi (2n=28, AABB). Il farro selvatico cresce ancora oggi spontaneo in Israele, Turchia e altri paesi e come i miei genitori disperde i semi sul terreno.

Cosa è successo quindi?

Come ti dicevo, all’inizio, io ed i miei familiari, eravamo piante tra le piante (…Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi…..) e quei pochi contadini che si accorgevano di noi, raccoglievano i nostri semi da terra, perchĂ© noi avevamo la necessitĂ  di disperderli per assicurarci una nuova vita. E per farlo, non avevamo bisogno di nessuno e tanto meno dei contadini-raccoglitori (…E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me…). Questa consuetudine è stata esercitata per millenni da tutte quelle popolazioni che non praticavano alcuna forma di agricoltura e/o di allevamento, ed è proseguita fino a quando, alcuni popoli nomadi cambiarono il proprio stile di vita diventando agricoltori stanziali. Questa nuova condizione ha profondamente trasformato l’ambiente naturale favorendo la raccolta preferenziale di esemplari di piante che presentavano caratteristiche vantaggiose per l’uomo (=mutazioni). Infatti, a un certo punto, il gene che rendeva la spiga capace di disperdere i propri semi mutò consentendo alle piante di farro di mantenere i propri semi sulla spiga, invece che diffonderli. E’ stato questo il primo effetto dell’adattamento all’ambiente umano della nostra famiglia (=domesticazione), creando i presupposti per la nascita dell’agricoltura. 

Si può dire che avete fatto un patto con l’uomo, attraverso la domesticazione…

Addomesticando le piante, l’uomo ha affermato il suo dominio sulla natura, la sua capacità di trasformarla per le proprie necessità. Le piante addomesticate sono divenute sempre più dipendenti dall’uomo, dalle cure che egli prestava loro proteggendole e nutrendole; con le pratiche agricole appunto. Tuttavia, da allora anche l’esistenza dell’uomo è diventata sempre più dipendente dalle piante che tutt’oggi egli alleva e coltiva (…Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo….).

Quindi in questo regime di dipendenza gli uomini hanno cercato di migliorare la vostra vita perché così migliorava anche la nostra.

Sì, gli agricoltori non si sono accontentati ed hanno continuato a privilegiare in campo le piante che mostravano le caratteristiche desiderate, selezionando in maniera empirica un’altra forma coltivata di farro tetraploide, il dicocco (Triticum dicoccum), comunemente chiamato “farro medio”. Questa è una specie con i semi più grandi e “vestiti”, cioè la granella a maturazione resta avvolta dalle glume perché dure e rigide, per cui per poterle macinare è necessario eliminare questo involucro esterno, con una operazione che oggi viene chiamata “decorticazione”. Il farro dicocco per secoli è stato l’alimento base degli antichi Romani che lo utilizzavano soprattutto per preparare pane, focacce e polente. La stessa parola “farina” deriva da “farro”. Ma evidentemente, l’incapacità dei semi di farro di liberarsi dalle glume è stata una caratteristica mai completamente apprezzata dagli antichi Romani perché quando il grano duro (Triticum durum) a seme “nudo” inizia ad essere coltivato nel III sec a.C. in Egitto, viene subito apprezzato ed acquista un ruolo sempre più importante rispetto al farro, semplicemente per il fatto che a maturazione la granella si liberava facilmente dalle glume, che in questa specie sono più sottili e morbide. Da questo processo di selezione empirica praticata per millenni deriva il grano duro che oggi tutti noi apprezziamo perché da esso ricaviamo il nostro piatto preferito: la Pasta.

C’è qualcosa ancora da raccontare su vostro albero genealogico? 

La storia non finisce qui, un secondo evento di poliploidizzazione, ovvero una seconda unione ha interessato la nostra famiglia. Esattamente 8-9000 anni fa, sempre in maniera casuale e spontanea il farro addomesticato T. dicoccum (2n=28, AABB) si è incrociato con una pianta diploide selvatica Aegilops squarrosa (2n=14, DD) generando una nuova specie esaploide con 21 coppie di cromosomi (2n=42, AABBDD). Ed è così che si è originato il Triticum aestivum o grano tenero, il fratello maggiore, forte, robusto e con una grande capacitĂ  di adattamento e che tutto il mondo oggi conosce perchĂ© è alla base della nostra alimentazione. Nella nostra famiglia, infatti, lui è quello piĂą importante ed anche quello piĂą coltivato tra tutti i cereali.

Da quel momento e per millenni diventa la pianta più coltivata al mondo, sua maestà il grano, bene, tuttavia le vostre caratteristiche rimangono quasi le stesse fini all’altro ieri, cioè ai primi del Novecento, quando avviene qualcosa di nuovo.

Si, esattamente. Per millenni la scelta delle piante migliori (=selezione) è stata irrazionale, guidata prevalentemente dal caso e dall’istinto delle popolazioni che ne hanno fatto uso. Purtroppo, i ricordi della mia infanzia sono poco chiari e spesso confusi. Ricordo però che da piccolo, i miei genitori, mi raccontavano che nonostante l’ambiente familiare accogliente e gli sforzi che avevano fatto per farci andare a “scuola” ad imparare le prime nozioni di agricoltura, il nostro “rendimento” era stato sempre scarso e poco soddisfacente. Infatti, il quoziente di resa, ovvero il rapporto tra il grano raccolto e quello seminato, utilizzato per secoli come strumento di indagine per individuare i segni della rivoluzione agricola, faceva registrare livelli di produzione molto basse fino agli inizi del XX secolo. 

Ti ricordi quanto producevi?

In Italia, negli anni 1900-13 la resa media era di circa 8-12 quintali ad ettaro; con 130-140 kg/ha di sementi, si producevano circa 1.000-1.200 kg/ha di granella. Livelli di rendimento molto simili erano giĂ  stati dichiarati da Varrone, che riportava un rapporto resa e semente di 10:1, e da Cicerone, che indicava nelle sue orazioni un quoziente di resa di 8:1 come normale e 10:1 in raccolti eccezionalmente buoni. 

Però a partire dal Novecento hai ricordi più vivi? Qualcosa è successo, vero?

Sì, a partire dall’inizio del secolo scorso i miei ricordi sono piĂą vivi, probabilmente perchĂ© quando ci siamo ritrovati nel capoluogo sabino a Rieti l’esperienza familiare che abbiamo vissuto è stata molto importante tanto da lasciare il segno. Infatti, proprio quanto tutti credevano che la nostra esistenza doveva rassegnarsi ad una condizione di perenne precarietĂ , instabilitĂ  ed incertezza sul futuro del nostro rendimento (=produzione), un giovane agronomo iniziò a frequentare la nostra casa nella valle reatina, operando un profondo rinnovamento della granicoltura italiana. 

Chi era?

Nazareno Strampelli (1866-1942), infatti, dopo essersi laureato e dedicato all’attività di laboratorio nel settore della chimica e all’insegnamento, nel 1903 giunse a Rieti, come Cattedratico Ambulante, ed iniziò ad occuparsi di noi, della nostra famiglia ed in particolare del Rieti originario.

Perché il Rieti?

Nel primo novecento, infatti, molti consideravano il Rieti originario il migliore grano in assoluto, soprattutto per le sue spiccate doti di resistenza alle malattie. Le sue qualitĂ , infatti, venivano esaltate nelle annate caratterizzate da forti attacchi di ruggine (esistono varie tipologie: ruggine gialla, bruna e nera). Si trattava di malattie del grano, prodotte da funghi diversi e così chiamate perchĂ© producono delle pustole (=sori) sulle piante, che emettono una polvere giallo-bruna o bruno-nera simile appunto alla ruggine che si origina in seguito all’ossidazione del ferro. 

Bene, cosa successe?

Le doti del grano Rieti erano ben conosciute anche dal giovane Strampelli che già nel 1900, senza conoscere le leggi di Mendel, il padre della genetica moderna, aveva realizzato il suo primo incrocio proprio tra il Rieti originario ed il Noè; quest’ultimo caratterizzato da una discreta resistenza all’allettamento, un fenomeno particolarmente diffuso in passato tra tutte le piante della nostra famiglia, ché sotto l’azione dei venti e delle piogge venivano travolte e piegate miseramente a terra, compromettendo irrimediabilmente la capacità produttiva. Ecco, Strampelli osservando il nostro comportamento durante l’anno scolastico (=stagione colturale) capì ben presto che per migliorare la qualità del grano reatino, elevandone la produttività e mettendolo nelle condizioni di accogliere al meglio le innovazioni agronomiche, che nel frattempo si erano affermate (aratura, semina a righe per i cereali, concimazione minerale), era necessario eliminare il principale limite del Rieti originario che era appunto la sua scarsa resistenza all’allettamento.

Come, con quale tecnica eliminò questo problema?

Per la verità, innanzi a Strampelli, si delinearono due possibili strade per risolvere questo problema. La prima, era quella della selezione detta per “linea pura”, che la coltura scientifica dominante in Italia, Inghilterra, Francia, Svezia e Spagna riteneva l’unica percorribile e che prevedeva lo sfruttamento della variabilità presente all’interno delle antiche popolazioni e/o varietà locali (come ad esempio il Rieti originario) e la selezione anche di una sola pianta (=linea), magari la più bella, con la paglia più forte, da cui si sarebbe originata una nuova varietà. Si trattava di sfruttare la variabilità generata dagli eventi ibridazione spontanei che si verificano raramente (nell’ordine dell’1-4%) tra piante della stessa popolazione strettamente imparentate. Il Rieti 745, ad esempio, è stato uno dei pochissimi risultati ottenuti da Strampelli sfruttando la selezione per linea pura. Il nuovo grano, tuttavia, sebbene avesse dimostrato di essere leggermente più produttivo rispetto al Rieti originario, non manifestava nessun miglioramento per quanto concerneva il suo punto debole, ossia l’allettamento. Il risultato, in un certo senso, era atteso da Strampelli dal momento che il Rieti originario, che per secoli era stato coltivato nella valle reatina, lontano dagli altri grani, non presentava al suo interno quella variabilità genetica necessaria per individuare la caratteristica desiderata. 

Quindi a questo punto Strampelli applicò un altro metodo?

Sì, fin da subito, imboccò la seconda strada quella dell’ibridazione e della “manipolazione genetica” attraverso l’acquisizione di centinaia di varietĂ  di grano provenienti da ogni parte del mondo. Prima per studiarne l’adattabilitĂ  alle condizioni ambientali della nostra regione, ma subito dopo per avere altresì a disposizione il materiale necessario ai suoi programmi di incrocio. In pratica, era convinto che per introdurre caratteristiche nuove all’interno delle varietĂ  locali che ne erano sprovviste, era necessario attingere da altre varietĂ  o specie, anche se provenivano da zone diverse. 

Allora parlami un po’ di questo metodo 

Utilizzando un microscopio ed analizzando le caratteristiche anatomiche degli steli (=culmi) dei grani che aveva collezionato a Rieti capì che la resistenza all’allettamento dipendeva dal diametro dei culmi, dall’elasticità e dallo spessore delle pareti e dalla loro lunghezza. Osservò che alcune di queste caratteristiche erano presenti in alcuni tipi di grano e addirittura in altre specie di piante diverse da noi come la segale (Secale cereale) o il cosiddetto grano peloso (Dasypyrum villosum), quest’ultima è una pianta selvatica molto presente ancora oggi ai bordi delle nostre strade e che sempre più spesso invade i campi coltivati.

Quindi cominciò il programma di incroci?

Quindi si procedette con l’incrocio genetico di due varietĂ  (=genitori), ciascuna portatrice di una o piĂą caratteristica di interesse (=fenotipo) con l’obiettivo di ottenere una discendenza (=progenie) piĂą o meno ampia, all’interno della quale selezionare la linea (=genotipo) portatrice delle caratteristiche di entrami i genitori. 

Primi risultati?

Nel 1914, in occasione della mostra delle novità agrarie a Roma, Strampelli presenta il frutto del suo incessante ed appassionato lavoro di ibridazione, il grano Carlotta. Il Carlotta altro non era che una delle centinaia di linee che lo studioso reatino aveva ritenuti validi per essere consegnati agli agricoltori, ma che per ragioni di opportunità era stato costretto a sospendere e mettere da parte, moltiplicando uno solo di questi, in sostituzione del vecchio Rieti. Aveva dato la preferenza al tipo 637 dell’incrocio Rieti x Massy e lo aveva chiamato Carlotta in onore dell’amata moglie e preziosa collaboratrice. Si trattava di un grano particolarmente indicato per l’area centro-settentrionale, adatto ai climi freddi, resistente alle ruggini e con notevole resistenza allettamento.

Carlotta si è fatto valere?

Il grano Carlotta fu la chiave del successo di Strampelli, le prestazioni agronomiche della nuova varietĂ  erano state molto alte se confrontate con il Rieti, tanto che giĂ  nel 1918, 100.000 ettari di superficie granaria italiana era coltivata con tale frumento. Grazie all’ottimo rendimento conseguito in differenti regioni italiane, complice anche il buon andamento climatico dei primi anni di coltivazione del nuovo grano, Strampelli venne accreditato come figura di riferimento della ricerca genetica ed agronomica italiana. Alcuni addirittura avevano gridato al miracolo. In realtĂ , negli anni successivi, con il ritorno di stagioni caratterizzate da siccitĂ  ed alte temperature, in quegli stessi territori il Carlotta veniva colpito dalla cosiddetta “stretta”. Questo fenomeno, ancora oggi, si verifica verso la fine del ciclo colturale del grano quando con il terreno ormai secco, le alte temperatura estive ostacolano il normale riempimento dei semi, riducendo il loro peso finale. Per questo motivo, contro Strampelli, si scagliarono le piĂą aspre critiche, non tanto da parte degli agricoltori quanto invece da parte degli addetti ai lavori, per le rese che furono decisamente basse e che misero in discussione il metodo dell’ibridazione che egli aveva proposto. 

Cosa successe?

Successe che nel frattempo Strampelli era andato avanti, tanto che il vero miracolo sarebbe arrivato da li a poco. Egli aveva intuito che un’altra caratteristica a cui doveva prestare attenzione era la precocitĂ  dei suoi grani, Avrebbe dovuto accorciare in qualche modo il nostro “ciclo scolastico” di 15-20 giorni. Anticipando le nostre vacanze estive, avrebbe anticipato anche la maturazione delle spighe ed evitato la “stretta” L’anticipo della raccolta avrebbe avvantaggiato molto non solo la nostra famiglia che avrebbe avuto piĂą tempo per le vacanze ma anche gli agricoltori dal momento che liberando in anticipo i campi dal grano, avrebbero avuto la possibilitĂ  di coltivare altre specie di piante e, nelle zone malariche, abbandonare i campi nel periodo di maggiore pericolositĂ . 

Un piccolo passo per voi ma un grande passo per l’agricoltura…

Nacque così l’Ardito (1920), ottenuto da Strampelli dalla re-ibridazione di una varietĂ  “nana” giapponese l’Akagomuchi, caratterizzata da una altissima precocitĂ  ma di nessun valore agronomico, con l’ibrido ottenuto incrociando il Rieti con il Wilhelmina Tarwe altamente produttivo, ma tardivo nella maturazione. L’Ardito fu un vero trionfo in quanto il culmo piĂą corto gli conferiva un’ottima resistenza all’allettamento, mentre l’anticipo di maturazione, gli permetteva di aggirare il pericolo della stretta, assicurando rese altissime. Il suo ciclo precoce, inoltre, offriva agli agricoltori la possibilitĂ  di trasformare diverse colture annuali, come il riso, il tabacco e il lino, in colture intercalari, permettendo la coltivazione di due colture all’anno, anzichĂ© di una sola. 

Altri incroci di successo?

Qualche anno dopo, dallo stesso incrocio, che in seguito sarà definito l’incrocio “capolavoro”, derivarono altri grani teneri precoci come il Mentana e il Villa Glori (1923) e più tardi il Damiano (1929). Con questi grani, Strampelli si era assicurato l’immortalità, ormai non doveva convincere più nessuno, il metodo dell’ibridazione aveva dato i suoi frutti e da quel momento la granicoltura italiana e mondiale non sarebbe più stata la stessa.

Sono stati anni belli dunque…

Questi per noi sono stati gli anni più belli, vissuti in compagnia di tante persone importanti che frequentavano la nostra casa e la nostra famiglia. Studiosi che con impegno e passione cercavano di analizzare i nostri comportamenti, esaminare le nostre abitudini quotidiane e le nostre debolezze. In quegli anni sono state colmate tutte quelle lacune scolastiche che per millenni ci avevano impedito di migliorare il nostro rendimento. Quell’esperienza ci ha aiutato molto, siamo diventati più bravi, diligenti, ordinati, i nostri voti sono migliorati in tutte le materie ed alla fine siamo stati promossi. Avevamo appena iniziato l’università.

Senti e venendo a giorni nostri, la vostra grande famiglia che problemi ha, e come possiamo aiutarvi?

Gli anni trascorsi all’universitĂ  sono stati bellissimi, pieni di soddisfazione, siamo cresciuti tutti moltissimo, non tanto in “altezza”, quanto piuttosto in termini di rendimento. Le nostre rese sono aumentate e tutta la nostra famiglia ha potuto beneficiare dei progressi scientifici che sono stati introdotti nella pratica agricola. Ricordo bene le cure che ci prestavate per farci crescere bene, tenendo lontani i bulli (=patogeni) che spesso ci davano fastidio, evitando che le erbacce ci soffocassero ed assicurando a tutta la nostra famiglia, abbondante nutrimento  (=fertilizzanti) a pranzo e a cena. In quegli anni non abbiamo mai sofferto: avevamo fame e ci avete dato da mangiare, avevamo sete e ci avete dato da bere; eravamo forestieri e ci avete ospitato, eravamo malati e ci avete curato e fatti visitare. 

Aiutateci che vi aiutiamo…

Anche voi, però, eravate piĂą contenti. La disponibilitĂ  di nuovi macchinari, frutto del progresso industriale, avevano reso la nostra coltivazione e la nostra raccolta piĂą veloce ed efficace. Il rombo del motore della mietitrebbia aveva sostituito il canto corale dei contadini che ritmava il duro lavoro con la falce nei campi durante i periodi di mietitura e trebbiatura. Il lavoro dei campi aveva sempre richiesto un grande dispendio di energia, tempo e fatica sin dalla preistoria. I vostri nonni lavoravano duramente la terra seguendo strettamente i ritmi dettati dalla natura. La fase della mietitura del grano, per esempio, era senz’altro una delle piĂą pesanti. Per millenni, l’uomo è stato “condannato” a lavorare la terra per potersi mantenere. La meccanizzazione, alleviando la fatica nei campi, ha fatto si che poche persone erano piĂą che sufficienti per lavorare la terra. Non è un caso che l’ingresso nei campi dei primi macchinari fu fortemente contrastato dai braccianti agricoli, proprio perchĂ© distruggevano posti di lavoro. Un poco come era successo a noi, quando Strampelli, ci introdusse come “razze elette”; in quell’occasione fu osteggiato da chi riteneva che meglio dell’ibridazione fosse la lenta selezione che avveniva con i tempi dalla natura. 

Quindi cambiando il lavoro della terra è cambiata anche la via di noi umani su questa terra…

Sì, la musica era cambiata, era cambiata la qualitĂ  del lavoro nei campi e la vita degli agricoltori. Si mangiava meglio, si guadagnava di piĂą, i vestiti erano alla moda e finalmente potevate mandare “anche” i vostri figli all’universitĂ . Si, perchĂ© come era successo a noi, anche voi avevate capito che, con l’istruzione potevate decidere il destino dei vostri figli ed offrirgli l’opportunitĂ  di sfuggire al destino segnato dalla nascita e della dura fatica dei campi. 

E oggi?

Oggi, la situazione è cambiata nuovamente e forse in maniera ancora piĂą radicale rispetto al passato. I nuovi grani, che rappresentano la seconda generazione di laureati (=varietĂ  moderne), dopo aver terminato l’universitĂ  fanno veramente fatica a migliorare i loro rendimenti. I cambiamenti climatici in atto e le richieste dei consumatori moderni hanno rallentato il guadagno genetico che avevamo registrato nel corso del secolo scorso. 

Che slogan intoni?

Oggi la vera sfida è “Produrre di piĂą con meno”. Questo è lo slogan che ci sentiamo ripetere ormai tutti i giorni in cui si parla di noi, di agricoltura e di cibo. “Dovete migliorare il vostro rendimento e produrre di piĂą, ma dovete utilizzare meno acqua, meno fertilizzanti, meno energia….Dovete fare a meno dei diserbanti, per liberarvi dalle infestanti e dei pesticidi, per tenere a bada le malattie, …perchĂ© costano troppo ed inquinano l’ambiente circostante”. Si perchĂ© oggi, l’agricoltura deve essere “sostenibile”, questo è l’altro temine che ci sentiamo ripetere spesso. “Soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere quelli della generazione futura” è il diktat dei nostri tempi. Questa definizione nasce dalla consapevolezza che i limiti del nostro pianeta sono reali. E’ necessario, pertanto pensare ad un nuovo modello di agricoltura basato sul rispetto della relazione tra il sistema ecologico e quello antropico, tra il paesaggio e l’uomo. 

Qual è la strada

Nel 2019 il parlamento europeo ha dichiarato l’emergenza climatica in Europa presentando una nuova strategia, denominata “Green deal“, con l’intenzione di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030. Parte integrante di questo “Patto Verde” è la strategia Farm to Fork il cui obiettivo finale è quello di rendere la produzione alimentare piĂą sostenibile, salvaguardare la fertilitĂ  dei terreni e garantire la sicurezza alimentare. Rispetto a questi buoni propositi, difficili e molto ambiziosi, per me e per la mia famiglia continuare a fare progressi, senza le adeguate cure e l’assistenza a cui ci avevate abituati in passato, sarĂ  molto difficile se non addirittura impossibile. Per adeguarci alle nuove pratiche di agricoltura sostenibile (agricoltura di precisione, conservativa, integrata, biologica, rigenerativa, biodinamica, vegana, idroponica, senza suolo, verticale, …) avremmo bisogno di rivedere le regole della nostra coesistenza integrando l’attivitĂ  agricola con il contesto sociale, culturale ed economico dei territori. 

Come si fa?

Per fare questo non abbiamo altra scelta che affidarci alla ricerca ed agli strumenti che offrono le biotecnologie e le moderne scienze bioinformatiche per assicurarci le cure migliori, comprendere il nostro comportamento e migliorare il rendimento dei nostri figli e delle future generazioni di grani.  GiĂ  oggi, la nostra famiglia è cresciuta, siamo in tanti, figli, nipoti e pronipoti, sparsi un po’ ovunque in tutti i continenti, adatti ai vari modelli di agricoltura e specializzati in diversi settori, quello del pane, della pizza, dei biscotti, dei panettoni, della brioche. In Italia, in particolare, è nata una generazione di grani molto apprezzati e destinati alla produzione di Pasta. 

Ora che mi hai raccontato tutta la storia, mi vuoi dire come ti chiami?

Certo, mi chiamo Cappelli, grano Cappelli. E sono l’unico che poteva raccontarti questa storia perché sono nato nel 1915. Oggi ho più di 100 anni, anche se non li dimostro, ed ho vissuto gli anni più belli fino alla metà del secolo scorso, ma mi sento ancora oggi molto apprezzato. Ho avuto tanti figli, di primo, di secondo e di terzo letto, che si sono trasferiti ed hanno messo casa in tanti Paesi; e molti si ricordano ancora molto bene di me. Oggi faccio parte di quella categoria che chiamano “grani antichi”, addirittura io ne sarei il capostipite; anche se, a dire il vero, un poco mi vergono, perché dopo tutto il racconto che ti ho fatto puoi ben capire che io di antico non ho nulla. 

Testo tratto dall’intervista impossibile al Grano, che si è svolta al festival Coltivato 2023, a cura di Antonio Pascale; grazie al professore Luigi Frusciante, Direttore del Centro di Ricerca Genomica e Bioinformatica del CREA, che ha dato voce al grano. L’intervista è stata pubblicata su Agrifoglio.